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L’impresa archeologica napoletana: storia, personaggi, difficoltà

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La leggenda narra che Eracle, il mitico eroe greco che i latini chiamarono Ercole, giunto in Italia dall’Iberia, dove aveva compiuto una delle sue famose imprese, fondò nei pressi di Napoli una piccola città, che prese il suo nome, Herculaneum. Collocata in un punto che permette di ammirare un panorama unico al mondo, al centro di un arco naturale che da capo Miseno va a Punta Campanella, la città fu abitata dagli Osci, dagli Etruschi, dai Sanniti e dai Romani; divenne, al tempo di Giulio Cesare, un municipium, comune non fondato da Roma ma incorporato nell’impero. La vicinanza di Napoli fu la sua fortuna in quanto parte della società patrizia romana, che era stata attratta sul golfo partenopeo dallo splendore del clima, preferì lasciare la caotica Napoli ritirandosi nelle quiete adiacenze. L’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel 79 d.C., cancellò la città, sommergendola con una fiumana d’acqua e fango, che dilagò nelle strade, entrando in ogni angolo e bloccando tutto in una morsa letale. La colata, nei secoli, acquistò la consistenza di un duro banco di roccia, alto fino ai venti metri, che ha conservato intatta fino ai nostri giorni questa straordinaria testimonianza dell’antichità classica, fermando in un preciso istante il tempo che secoli dopo sarebbe stato riavviato dalla mano dell’uomo. 

I primi scavi.   La scoperta della città di Ercolano ebbe moventi occasionali. Fu infatti il principe Emanuele Maurizio d’Elbeuf, ufficiale francese al servizio del viceregno austriaco, ad avere la ventura di fare i primi ritrovamenti. Egli, proprietario di un casino a Portici nelle adiacenze della costa, seppe di un contadino che, nello scavare un pozzo, aveva trovato alcuni marmi antichi; avendo intenzione di ristrutturare il suo casino e di adoperare a tal fine, per l’intonaco delle mura, la polvere di marmi antichi, acquistò i pezzi dal contadino. Apprezzati  i pezzi acquistati quali realmente antichi, a partire dal 1709, l’ufficiale austriaco diede ordine di proseguire lo scavo, innanzitutto dal pozzo “[…] ex quo prima consepultae urbis rudera et signa emerserunt […]” e poi nelle immediate adiacenze di quello stesso scavo. Fu incaricato di dirigere le operazioni l’architetto Giuseppe Stendardo che, dopo varie ricerche e consultando alcuni studiosi,  capì che i reperti provenivano da quello che era stato il porto dell’antica Ercolano. I lavori furono premiati dal ritrovamento di alcune statue e colonne di marmo, del sito di un tempio, di un pavimento in giallo antico, di qualche iscrizione latina. Lo scavo proseguì con una logica di archeologia di rapina, che poco interesse aveva nel porsi domande di carattere storico e filologico, non cogliendo l’importanza culturale dei ritrovamenti. Le statue recuperate raggiunsero Vienna, offerte al generalissimo d’Austria principe Eugenio di Savoia; alla morte di questi le statue raggiunsero Dresda, acquistate da Cristiano Augusto re di Polonia ed Elettore di Sassonia, che le aggiunse alla sua personale collezione d’arte. Divennero poi preda di guerra  di Federico II di Prussia durante l’invasione di quel regno. Ulteriori oggetti furono donati dal principe d’Elbeuf ad illustri personaggi, proseguendo gli scavi privati fino al 1716.

L’intervento borbonico.   La storia ufficiale degli scavi di Ercolano coincide con i primi anni del regno di  Carlo di Borbone. Don Carlos, figlio di Filippo V di Borbone, re di Spagna,  e di Elisabetta Farnese, entrò a Napoli il 10 maggio 1734, allontanando il governo austriaco. Pochi giorni dopo giungeva, da Madrid, l’atto con cui Filippo V cedeva al figlio tutti i diritti regali sul regno conquistato; dopo due secoli di dominazione straniera, Napoli aveva nuovamente un proprio re, che fu accolto con grande entusiasmo. Il giovane sovrano entrò subito in sintonia con Napoli ed il suo popolo, dimostrando fin dall’inizio la sua volontà di dare al Regno  un degno tono culturale e di conferire alla giovane monarchia una sua riconoscibile identità, al fine elevarla al rango delle monarchie europee. A tal fine il giovane sovrano non tralasciò nessuno degli strumenti di cui da sempre il potere monarchico assolutistico, in tutta Europa, si era servito per l’affermazione del prestigio regale, facendosi promotore di una serie di iniziative architettoniche e culturali, quali l’ edificazione di ville, regge, teatri, manifatture reali, che sapientemente indirizzò al servizio dei  fini dinastici.

 Gli scavi di Ercolano gli offrirono un’occasione unica di presentarsi all’Europa come il re archeologo che aveva svelato dopo secoli una città sepolta dalla furia della natura, il sovrano illuminato cui la Provvidenza aveva  accordato l’onore di riportare alla luce tesori ineguagliabili. Don Carlos unì, all’iconografia classica settecentesca del sovrano riformatore e promotore del progresso e delle arti, la celebrazione della rinascita di una città sepolta, ponendosi in una posizione di assoluta originalità.  

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La vicenda ercolanese iniziò nel  maggio del 1738, quando il re per la prima volta arrivò a Portici, forse sorpreso da una tempesta al ritorno da una battuta di caccia, occupazione che amava particolarmente, o forse semplicemente per una visita, stando all’aneddotica più frequente. Affascinato dell’amenità del luogo, ordinò che si avviassero i lavori per la costruzione di una reggia quale residenza estiva della corte, non badando a chi gli rammentava la vicinanza pericolosa del Vesuvio. Alcuni  lavori furono affidati all’ingegnere militare don Roque Joaquin de Alcubierre, il quale nell’adoperarsi per rilevare una pianta della zona destinata alla villa e avendo ricevuto notizie sui passati ritrovamenti, s’imbatté in alcuni resti dell’antica città e riuscì a persuadere il re ad indirizzare una piccola parte della manovalanza addetta ai lavori della reggia verso l’attività di scavo . Gli scavi, che sarebbero divenuti  l’attrattiva principale del luogo, furono quindi circostanza fortuita e conseguente alla scelta di edificare una reggia in Portici.

Venuto a conoscenza dei ritrovamenti di antichità nella zona di Resina e Portici, il re  “[…] amantissimo del progresso di ogni sapere, e delle belle arti, e riflettendo che il prosieguo di tal impresa sarebbe stato di ornamento alla Nazione e di stimolo ai dotti, senza risparmiare spese né diligenza ordinò che subito si ricominciassero i già abbandonati scavamenti.”. L’ impresa degli scavi iniziò ufficialmente nell’ottobre del 1738. I risultati furono subito folgoranti, provocando nel re e negli addetti ai lavori grande  meraviglia; essere i primi ad alzare il velo di una città antica suscitò nei primi scopritori una emozione intensa e quasi spirituale, dandogli la sensazione di riavviare il corso del tempo che il Vesuvio aveva fermato immortalando Ercolano in un istantanea del 79 d.C..  Iniziarono a venire alla luce copiosamente iscrizioni, statue di marmo, statue di bronzo, strade, templi, abitazioni, mobili, pitture, monete, frammenti di ogni genere. Si scoprì subito il teatro, completo nel suo originario arredo; esso si presentava dotato di tutte le colonne, gli ornamenti di marmi preziosi, le sedie d’onore dei magistrati  “nel modo appunto com’era stato sepolto diciassette secoli innanzi, non vi si potendo desiderare che la viva voce degl’istrioni ed il tumulto degli spettatori”. Il re partecipò con curiosità ed entusiasmo all’impresa, esigendo quotidianamente notizie degli scavi e scegliendo spesso di presenziare ai lavori, infondendo il suo trasporto e la sua eccitazione a tutto l’ambiente. Fin dall’ inizio egli vide in Ercolano una preziosa miniera di opere d’arte che potessero degnamente rivaleggiare con le cospicue collezioni papali ed europee; man mano che proseguivano gli scavi cresceva la consapevolezza di andar formando una collezione d’antichità rarissima e forse senza eguali. I successi iniziali incoraggiarono il prosieguo dell’operazione permettendo, nel 1753, la sensazionale scoperta, in una stanza angusta di un’abitazione, di un gran numero di rotoli cilindrici sopra scaffali di legno o rovesciati sul pavimento: veniva alla luce in questa villa, detta dei Papiri, una biblioteca di circa 1800 papiri in lingua greca e latina. Resterà questo uno dei punti fondamentali e  scientificamente più interessanti della storia archeologica napoletana e della cultura mondiale tutta.

Le difficoltà e le critiche.    Portare in luce i tesori dell’antichità non fu però compito agevole. Le difficoltà furono molteplici e legate a vari aspetti della vicenda: se lo scavo ercolanese non aveva precedenti per ampiezza di programma e per stato di conservazione dei monumenti, non aveva sicuramente precedenti dal punto di vista delle difficoltà di scavo. Ingente fu l’esposizione economica, a testimonianza di quanto don Carlos tenesse a quelle escavazioni. I primi scavi furono diretti dal marchese Marcello Venuti, soprintendente alla Libreria Reale , alla Collezione Farnesiana ed alla sistemazione del medagliere del re. Fu quindi un caso fortuito che il re avesse al suo fianco, nei primi anni della vicenda, un erudito esperto di antiquaria quale il cortonese; ciò si rivelò indubbiamente un fattore positivo, come dimostra anche la scoperta del teatro, propiziata proprio da un’intuizione dello studioso che, esaminando alcuni frammenti di iscrizioni rinvenute, intuì che ci si trovava esattamente  nell’edificio del teatro di Ercolano. Venuti privilegiò in molte occasioni l’aspetto emotivo del ritrovamento, ben descrivendo in alcuni passi della sua Descrizione l’alone avventuroso e romantico della scoperta; spesso si intratteneva con il re  in conversazioni di argomento archeologico. Non mancò di avanzare proposte importanti sotto l’aspetto tecnico, soprattutto suggerendo di passare sulle pitture antiche  una particolare vernice che ne avrebbe permesso la conservazione, avendo osservato lo sfinimento dei colori che sopraggiungeva nel tempo. Successivamente, partito Venuti nel 1740, la direzione degli scavi fu affidata all’Alcubierre,  affiancato dall’ufficiale Karl Weber, “[…] ambedue versatissimi nell’architettura militare ma poco o niente intelligenti di antichi monumenti […] ”. Dopo le dimissioni dell’Alcubierre nel 1741, dovute alle sue precarie condizioni fisiche conseguenti alla frequentazione dei luoghi malsani dello scavo, diressero i lavori l’ingegnere militare Pierre Bardet, a cui si deve il primo tentativo di stilare una pianta generale degli scavi, e l’ingegner Francesco Rorro. Infine nell’estate del 1745 rientrò Alcubierre, coadiuvato in seguito da Francesco de la Vega.  Il fatto che i lavori fossero affidati a tecnici appartenenti all’esercito testimonia l’inesistenza di figure e competenze idonee a condurre un lavoro che presentava tanti e tali aspetti di novità. Questo condusse ad una consistente importazione di saperi al fine di procurarsi quelle abilità e quelle competenze specifiche che non si trovavano all’interno del Regno e che, con il procedere degli scavi e con il superamento graduale della fase sperimentale dell’impresa, andarono definendosi anche all’interno.

Sotto l’aspetto tecnico, nel primo trentennio si procedette scavando gallerie e cunicoli con lo scoppio di mine fino ai 20 metri di profondità, con difficoltà enormi, superate solo in parte dall’abilità dei cavamonti; si scavò  attraverso spazi angusti e scuri, alla luce di lanterne, tra il pericolo di frane e le insidie delle esalazioni di gas acido – carbonico, procurando anche danni agli edifici soprastanti. Si lavorava con l’ansia di recuperare quanto  sopravvissuto alla violenza dell’eruzione, staccando ed incassando pitture e mosaici, assicurando le sculture di marmo e di bronzo per issarle su con canapi. Fu un lavoro durissimo tirare fuori i materiali per quei luoghi intricati, angusti, umidi e senza luce, tanto che nei racconti dei primi tempi  si ricorda spesso l’espressione scaramantica “e si spera che salga sana”, che accompagnava la notizia del rinvenimento di qualche pittura interessante; “[…] mai forse lavoro di miniera impose più duro sacrificio di questo o richiese maggior sforzo d’intelligenza e di maestria con mezzi più rudimentali”. Di quel labirinto di grotte e cunicoli non si fecero piante e molte volte si ritornò inutilmente in zone già scavate con dispendio di tempo e di energie immensi.

 Certamente mancò a quei primi scavi la necessaria collaborazione tra studiosi e tecnici che, senza un concreto programma di ricerca che andasse al di là di un criterio di “[…] archeologia di rapina mirante a salvare solo i reperti di valore per il collezionismo […]”, risultarono spesso in conflitto tra loro. Gli architetti e gli assistenti, piuttosto che adoperarsi in utili descrizioni di ciò che andavano scoprendo, provvidero a minuziosi elenchi dei ritrovamenti ed alla ricerca di resti negli angoli più segreti delle abitazioni scoperte, ancora lontani da un approccio di tipo scientifico. Tanti furono i danni causati da  tale modo di intendere gli scavi e tanti furono i danni derivanti dall’inesperienza, che si concretizzarono nella frequente distruzione di materiale di ogni tipo considerato inutile per la collezione reale.

I metodi usati non mancarono di attirare le critiche della comunità dotta europea che, con attenzione e grande curiosità, seguiva la vicenda fin dalle prime battute. Le notizie dei ritrovamenti  fecero il giro del mondo, alimentando in modo esponenziale l’interesse di studiosi e di illustri personaggi, che, aggiungendosi alla bellezza del sito, alla importante tradizione pittorica e musicale, elevarono Napoli, il Vesuvio e la zona di Resina a tappa obbligatoria del Grand Tour nella penisola italiana. Le maggiori critiche colpirono i metodi di scavo; significativi, a tal riguardo, i rilievi critici che Charles de Brosses, molto lucidamente, fece nelle sue lettere italiane sul metodo adottato per i lavori: “[…] se si potesse decidere di asportare il terreno quanto occorre, sono sicuro che la spesa sarebbe ben ripagata […]”, esprimendo quindi la sua preferenza per un tipo di operazione che portasse alla luce l’intera città sepolta, attraverso un metodo di scavo scientifico,  a cielo aperto. Il de Brosses esplicitò ancor più decisamente il suo disaccordo con il metodo per cunicoli sotterranei: “[…]  non si farà mai niente di veramente utile se si continua a lavorare a questo modo e se non si prende la decisione di asportare la terra per una estensione considerevole, dal livello attuale del suolo fino al pianterreno della città […] quanto vi hanno scoperto frugando alla cieca, può permettere di giudicare ciò che renderebbe una ricerca metodica […]”. Dure anche le critiche del Winckelmann che, disapprovando il lavoro degli addetti allo scavo, dirà dell’Alcubierre “[…] non aveva mai avuto da fare con le antichità più della luna coi gamberi […]”.

  Le polemiche riguardarono anche il modo di gestione delle informazioni da parte della corte. Si rimproverava da più parti il continuo e attento controllo delle informazioni, il riserbo, gli ostacoli per chi volesse visitare i cantieri e le collezioni; iniziarono così le numerose fughe di notizie che generarono una consistente letteratura non ufficiale sugli scavi, che tanti errori e tante inesattezze contribuì a divulgare.

Quando non furono infondate o faziose le critiche colsero reali aspetti di difficoltà ed errori nella strategia archeologica napoletana; bisogna però ricordare sempre la novità assoluta e la difficoltà dell’impresa e contestualizzare la vicenda nel suo periodo storico ed alla luce del momento particolare della monarchia borbonica  partenopea, che viveva le fasi del suo consolidamento. Non bisogna innanzitutto dimenticare che l’impresa richiese l’organizzazione e l’invenzione di una “[…] metodologia di scavo e di approccio al reperto […]”, nonché  di conservazione e restauro, che non esisteva, e che solo con il procedere delle scoperte andò perfezionandosi. I problemi della conservazione e del restauro richiesero inoltre  una consistente importazione di capacità, facendo confluire a Napoli pittori, scultori, restauratori, incisori , con grande dispendio economico della corte. Per questo è ingeneroso puntare il dito verso personaggi, come ad esempio l’Alcubierre, che affrontarono il lavoro con metodologie ricavate dalla propria esperienza e dal proprio bagaglio di conoscenze, che non era e non poteva essere a quel tempo quello idoneo ad affrontare uno scavo secondo un approccio di tipo archeologico scientifico; bisogna riconoscere gli errori ma insistere anche sulle esperienze e sulle innovazioni che gli sbagli offrirono alla causa della nascita di una archeologica di tipo moderno. Attraverso la comprensione degli  errori e gli ostacoli che lo scavo opponeva prese forma gradualmente un insieme di tecniche e metodi che avrebbero permesso l’evoluzione dello scavo di Ercolano e sarebbero serviti da modelli per la nascente scienza archeologica. A metà del Settecento si ponevano le basi per la nascita della ricerca archeologica moderna, attraverso un percorso di collaborazione internazionale che, anche nei suoi risvolti polemici, riuscì a dare straordinari frutti.

Finalità politiche dell’ impresa archeologica.  
C’è inoltre da considerare il rilievo politico che finirono per assumere le scoperte, inserendosi  nell’ampio programma del mecenatismo di Carlo di Borbone. Le scoperte assunsero fin dall’inizio lo status di strumento al servizio della politica di consolidamento ed accreditamento della giovane monarchia carolina . Il riserbo con cui fu trattata la vicenda, l’attenzione ed il controllo delle notizie sugli scavi, il monopolio di pubblicazione dei ritrovamenti, sono tutti segnali inequivocabili della concezione del re, che considerava ciò che di prezioso andava scoprendosi ad Ercolano proprietà reale. Le antichità avrebbero mostrato alle più prestigiose monarchie europee che il Regno Delle Due Sicilie  aveva le doti per rivaleggiare con esse per magnificenza e proiettando Napoli nel circuito delle grandi capitali europee. L’accostamento tra l’equilibrio e le virtù del mondo classico e il re Borbone, la rappresentazione di don Carlos quale amante della pace e dell’arte, furono elementi costantemente presenti nella storia delle scoperte e fortemente strumentalizzati dal sovrano. Il disegno politico di Carlo ebbe quale valido interprete il ministro toscano Bernardo Tanucci, che seppe offrire alla causa del progetto del re la sua lungimirante intelligenza, stimolando un confronto dialettico tra l’entusiasmo e la scienza, tra la passione dilettantistica del sovrano e la propria sapienza di erudito . Don Carlos e Tanucci compresero che l’impresa “[…] poteva trasformare d’un tratto quel remoto angolo di mondo in uno dei fuochi della cultura europea […]”, e se i risultati non rispecchiarono in pieno le aspettative e l’impegno profuso, le colpe non vanno addossate solo sui promotori ma vanno valutate alla luce di tutto il complesso di situazioni che una impresa di tale portata generò. Dall’ impresa archeologica “Napoli usciva inserita su una lunghezza d’onda europea, non al seguito, ma alla guida d’un impresa, di cui tutto compreso riuscì ad assumersi le responsabilità e il merito.”

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