MIGLIO D'OROPORTICIVESUVIANO

Un elefante alla corte del Borbone

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Un elefante a Corte!?! Sì, avete letto bene, un elefante a Corte, precisamente alla Corte di Carlo di Borbone a Portici.
Ma che ci fa, nel 1742, questo esotico animale nel Regno di Napoli?

Dal 1742 nella Reggia di Portici era sorto una sorta di giardino esotico con animali di varia provenienza e anche feroci, quali pantere e leoni. Un vezzo reale che il sovrano volle concedersi all’interno della Reggia di Portici, residenza lungo il Miglio d’Oro.

Molti provavano ad ottenere le grazie del Re regalando esemplari da aggiungere al neonato “zoo”, ma fu il marchese di Salas che riuscì più di tutti a sorprendere il Re e tutta la corte quando fece arrivare alla Reggia un elefante!
Il marchese aveva incaricato dell’acquisto del pachiderma il conte Finocchietti, ambasciatore borbonico presso il Sultano di Costantinopoli, anche se la versione ufficiale accreditata, al fine di incrementare il prestigio del giovane Regno con un successo nelle relazioni diplomatiche con l’Impero Ottomano, recitava che esso fosse un dono del sultano turco ottomano Mahmud I al sovrano del Regno di Napoli, in cambio di tavole di marmo pregiato.
Il pachiderma, un enorme esemplare maschio di elefante indiano, approdò il 7 settembre del 1742 a Brindisi accompagnato da sei turchi, addetti a curarlo durante il viaggio sino a Napoli, suscitando grandissima curiosità tra i brindisini che accorsero in massa a vedere siffatta novità.
Solo il 18 ottobre successivo il convoglio con l’animale partì alla volta di Napoli, arrivandovi il giorno 1 novembre, dopo un lungo viaggio via terra.

Il Marchese di Salas ottenne l’effetto desiderato. Il Re e la famiglia reale ne furono entusiasti e presero ad amare molto l’animale ritenendolo, a ragione, il vero e proprio diamante di quella esotica collezione.

All’artista Giuseppe Bonito fu commissionata una tela dedicata all’elefante che fu inviata poi al padre di Carlo di Borbone, Filippo V di Spagna. Ritratto oggi conservato nelle collezioni del Palazzo Reale di Riofrio a Segovia, in Spagna. Fu altresì raffigurato in una statua in terracotta di Gennaro Reale e in un altro dipinto del Ronchi, entrambi conservati nella Reggia di Caserta.

Al medico Francesco Serao fu commissionata la redazione di un saggio scientifico che egli intitoló “Dissertazione sull’elefante” e che venne pubblicato nel 1766 all’interno degli “Opuscoli di fisico argomento”. L’animale divenne famosissimo nel Regno, tanto da essere portato alle parate ed in occasioni speciali. Andò addirittura in scena nel celeberrimo teatro San Carlo per l’opera di Pietro Metastasio “Alessandro nelle Indie”.

A testimonianza della grande importanza attribuita al pachiderma per la collezione reale, ad esso venne addirittura destinato un caporale dell’esercito reale. Questi ne avrebbe avuto cura massima e lo avrebbe mostrato a cortigiani ed ospiti che, sovente, destinavano anche una mancia al soldato, ben felice di questo compito assegnatogli.

Pochi anni dopo, l’elefante del Borbone nonostante le cure e la massima attenzione, perí. Probabilmente anche a causa di un’alimentazione non propriamente adeguata. L’animale fu quindi imbalsamato alla Reale Università degli Studi per essere poi esposto nel Museo di Zoologia dal 1819, dove ancora oggi é possibile osservarlo, seppure nell’Ottocento è stato oggetto di numerosi trafugamenti di varie componenti.

Questa vicenda ha anche un altro risvolto particolare dal quale ha avuto origine un detto popolare. Infatti, alla morte dell’elefante terminò anche il compito del caporale che, mesto, dovette ritornare alle ben più faticose occupazioni abituali rinunciando altresì alle frequenti mance e venendo apostrofato ironicamente dai propri commilitoni con la canzonatoria frase “Capurà’, è muorto ‘alifante!!!” (“Caporale, è morto l’elefante!”). Citato persino da Benedetto Croce, il detto è ancora oggi utilizzato per canzonare chi, dopo periodi di occupazioni privilegiate, ritorna alle abitudinarie fatiche quotidiane

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