ARCHEOLOGIARUBRICHE

La Prammatica del 1755

Il depauperamento del patrimonio archeologico del Regno delle Due Sicilie, con il prosperare del mercato nero dell’antico e della circolazione incontrollata di falsi, richiedeva l’intervento deciso e puntuale della corte. Acquisita consapevolezza dell’urgenza di un intervento in tal senso,  il re si risolse ad agire; con sovrano dispaccio datato 24 luglio 1755 trasmesso alla Segreteria di Stato d’Azienda, di Guerra, Marina e Commercio, ingiunse alla Real Camera della Sommaria di emanare un editto avente la finalità di arginare il fenomeno dell’esportazione dei tesori d’arte antichi. Si andava così a colmare un  vuoto legislativo inaccettabile e deleterio per il patrimonio del Regno, che disponeva al suo interno di straordinarie ricchezze, bisognose di una tutela seria e di un’attenzione massima. Il provvedimento napoletano si presenta quale intervento sicuramente  innovativo, che va a suggellare un percorso che, partito con la scoperta di Ercolano, culmina con il riconoscimento dell’importanza per la nazione della sua eredità culturale e con la predisposizione a tal fine di uno strumento legislativo mirato.

La parte introduttiva del provvedimento assume valenza di dichiarazione d’intenti e testimonia la presa di coscienza della corte con riguardo ai temi in questione. Il legislatore, riconoscendo la straordinarietà del patrimonio posseduto, eredità diretta delle radici greche e romane che “[…] hanno in ogni tempo somministrato in grandissima copia  dè rari monumenti di antichità agli uomini di quella studiosi, di statue, di tavole, di medaglie, di vasi e d’istrumenti, o per sacrifici , o per sepolcri o per altri usi della vita, o di marmi, o di terra, o di metalli.”, attesta la propria acquisita consapevolezza ed esplicita le ragioni dell’intervento. Prendendo atto che “[…] niuna cura e diligenza è stata per l’addietro usata in raccoglierli, e custodirli, tutto ciò che di più pregevole è stato dissotterrato, s’è dal Regno estratto, onde il medesimo ne è ora assai povero, dove altri Stranieri dè lontani  Paesi se ne sono arricchiti[…]”, si constatava l’indebito arricchimento che altri paesi avevano tratto a proprio esclusivo vantaggio, facendone “i loro maggiori ornamenti” e “grandissimi profitti traendone, e per intelligenza dell’antichità, e per rischiaramento dell’Istoria, e della Cronologia, e per perfezione di molte arti”; c’è in questo passo il riconoscimento dell’importanza, sotto diversi aspetti, dei beni culturali e la condanna dello sfruttamento che altre nazioni sono state capaci di perpetrare ai danni del mal protetto patrimonio del Regno.

prammatica 1755

Constatato ciò e guardando all’esempio delle nazioni che si erano già dotate di un apparato di tutela dei beni posseduti “ Il Re [..]  considerando , che negli Stati più culti dell’Europa l’estrazione di sì fatte reliquie d’antichità, senza espressa licenza dè sovrani è stata vietata […] ha deliberato a sì fatto male si ponghi una volta rimedio, acciò che questo Regno non vada sempre più impoverendosi di ciò che abbonda, per farsene abbondanti l’altre Provincie d’Europa, che ne sono povere da loro stesse”; si coglie bene qui lo spirito di emulazione del legislatore che, criticamente e contestualmente, fa riferimento alle normative contemporanee  più all’avanguardia, guardando con particolare attenzione a quelle approntate nello Stato Pontificio. Questa circostanza è anche rivelatrice della personalità di Carlo di Borbone, sovrano desideroso di ritagliarsi uno spazio tra i regnanti illuminati del tempo e attento nel cogliere tutte le possibili occasioni e gli spunti per allineare il suo Regno alle più moderne istanze del tempo; in questa chiave va letto il richiamo alle normative contemporanee più progredite per mettere il sistema di tutela del patrimonio nazionale al passo con i tempi, offrendo inoltre innovativi spunti per lo sviluppo seguente della materia.

Dopo l’importante parte introduttiva della prammatica si sviluppa la parte propriamente dispositiva, che si presenta chiara e mirata allo scopo, attestando che “nessuna persona […] ardisca da ora in avanti estrarre, o far estrarre, o per mare, o per terra, dalle Provincie del Regno per Paesi esteri, qualunque monumento antico […]”, elencando poi in modo sufficientemente dettagliato le categorie di beni sottoposti a  tutela, in alcun modo estraibili senza licenza reale. Significativa da questo punto di vista è l’inclusione, nell’elenco, degli “istrumenti” della vita quotidiana, rinvenuti in gran numero ad Ercolano, e per la prima volta inseriti in una normativa di tutela,  segno dell’“interesse per la cultura materiale che andava maturando nel Regno borbonico, o quanto meno per il valore storico documentario che evidentemente inizia a riconoscersi” a tali oggetti. D’altronde, l’attenzione verso queste testimonianze della civiltà antica si era manifestata già nell’allestimento del Museo Ercolanese con la ricostruzione di una cucina antica. L’influenza esercitata dai tanti oggetti di questo tipo  attraverso l’esposizione al Museo e la pubblicazione nei volumi delle Antichità fu notevole e dispiegò i suoi effetti su gran parte della produzione artistica successiva  di gusto neoclassico. La lucidità del legislatore si coglie inoltre nell’inclusione, nell’elenco, delle “pitture tagliate da’muri”, previsione importante dal momento che il distacco di pitture dai muri ai fini del trasporto nel Museo era pratica molto frequente durante lo scavo ercolanese.

 Le pene previste per i trasgressori erano  dure, a riprova della preoccupazione del re. Si prevedeva in primo luogo la “[…] perdita della roba che s’estrae[…]” ed inoltre “ […] anni tre di galea per gl’Ignobili, e d’anni tre di relegazione per li Nobili”; si disponeva in più la punizione anche del solo tentativo di furto, che veniva pertanto equiparato al reato compiuto. 

prammatica 1755

Identificati i beni oggetto di tutela e le pene previste per i trasgressori, la prammatica chiarisce le possibili eccezioni a tali divieti; non essendo infatti nelle intenzioni del re di vietare in modo assoluto l’esportazione  “[…] ma solo di quello che, o per eccellenza di lavoro, ed artificio, o per altra rarità merita d’essere tenuto in pregio […]”, si dispone di destinare persone “[…] dotate non solo di bastante perizia in sì fatte cose, ma anche d’integrità e rettitudine […]”,  perché possano valutare il pregio di un oggetto e decidere se farlo rientrare nell’ambito della tutela o concederne licenza di estrazione al richiedente. Il legislatore designa allora le persone addette alla ricognizione ed alla valutazione dei beni del patrimonio nazionale, assegnando il compito, per quanto riguarda tutto il materiale d’interesse archeologico, al reverendo Alessio Simmaco Mazzocchi “[…] uomo dotato non solamente di somma perizia in sì fatte cose, ma anche di una gran probità, ed onoratezza […]”, escluse le pitture, di tutti i generi, affidate all’attenzione del pittore di corte Giuseppe Bonito. Inoltre, per espressa volontà del re, si prevede che il Mazzocchi dovesse essere affiancato, per la ricognizione delle statue, dal Canart.

Il dispaccio napoletano andava a colmare una lacuna normativa inammissibile alla luce delle ricchezze di cui il Regno era dotato. Esso appare ispirato alle più progredite istanze del tempo e risulta attento e sensibile nei confronti di tutti i vari aspetti della questione, “[…] mostrando di avere piena coscienza di tutte le possibili valenze – economiche, turistiche, culturali, storiche, di prestigio – annesse al patrimonio artistico ed archeologico”. Nonostante ciò, non bisogna dimenticare che il patrimonio nazionale era ancor considerato alla stregua di  bene della Corona, da proteggere in ragione della difesa del patrimonio dinastico. Tuttavia è indiscutibile l’importanza dell’intervento del 1755, che si eleva ad ennesimo passo in direzione dell’affermazione del carattere di bene pubblico del patrimonio nazionale; esso è il segnale concreto dello strutturarsi di una politica culturale matura, al passo con i tempi, ed all’altezza del peso dell’eredità culturale del Mezzogiorno italiano. Emblematico a tal riguardo  l’episodio dell’anello, impreziosito da un piccolo oggetto ritrovato a Pompei, che il re portava sempre al dito e che all’atto della sua partenza per la Spagna volle lasciare a Napoli, a testimonianza del suo rispetto per il tesoro storico- culturale del Regno e dell’inscindibile legame tra Stato, o meglio tra dinastia reale e patrimonio.

Don Carlos lascia così la sua impronta anche nel campo della tutela dei beni culturali, dimostrandosi sovrano attento alle molteplici sfaccettature che l’attività di governo possiede implicitamente ed entrando di diritto  nel novero dei sovrani illuminati del XVIII secolo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *